Cibo ad arte…ovvero come il cibo ha contaminato l’arte contemporanea

Io sono per l’arte delle pompe di benzina bianche e rosse, delle insegne luminose a intermittenza, per i biscotti…” – Claes Oldenburg.
Il cibo ha sempre avuto un posto e un ruolo nell’arte, in quella classica e in quella contemporanea, nelle scene religiose così come nelle nature morte, sullo sfondo oppure in primissimo piano, accessorio o al contrario protagonista. Nell’arte medievale e moderna le vivande apparivano per ciò che erano, anche se talvolta potevano avere dei significati nascosti, misteriosi o al contrario facilmente riconoscibili; il pane ad esempio rimandava all’eucaristia, la melagrana alla fedeltà coniugale, la mela morsicata alla caducità della vita… Il primo a stravolgere il senso e l’uso comune dei generi alimentari è stato senza dubbio Arcimboldo, che già nel Cinquecento si divertiva a realizzare curiosi ritratti con frutta e verdura, creando un divertissement unico per la corte asburgica.
Nell’arte contemporanea però il cibo ha iniziato ad assumere un ruolo diverso e a essere usato non più come tale, ma come qualcos’altro. Così il Busto di donna retrospettiva di Salvador Dalì (1933, New York, MoMA) ha come copricapo una baguette e come capelli delle pannocchie, mentre René Magritte sconvolge tutte le nostre certezze dicendoci che non sempre una mela disegnata è semplicemente una mela (Ceci n’est pas une pomme, 1964, collezione privata).

Salvador Dalì, Busto di donna retrospettiva, 1933, MoMA
Salvador Dalì, Busto di donna retrospettiva, 1933, MoMA

Tra tutti i movimenti artistici, la Pop Art è di certo quello che ha dedicato un posto di riguardo al cibo; non esiste artista pop che non abbia realizzato almeno un’opera il cui protagonista sia un alimento. Andy Warhol ha creato una serie di litografie (Milano, Fondazione Mazzotta) che hanno per soggetto alcuni dolci più o meno inventati, con fantasiose ricette per riprodurli, mentre Tom Wesselmann ha inserito un po’ ovunque nei suoi quadri prodotti di grandi marchi americani, veri status symbol della società americana anni sessanta (e non solo). E così in Still Life #30 (1963, New York, MoMA) fanno bella mostra di sé tutti gli alimenti che si possono trovare nella dispensa e nel frigorifero della famiglia perfetta della società consumistica (yogurt, frutta in scatola, cereali da colazione, pane da toast, pancakes…); alcuni oggetti sono dipinti, altri sono stati ritagliati dalla pubblicità e poi incollati sulla superficie pittorica, ma non fa differenza perché tutto è trattato nella stessa maniera, in modo piatto e artificioso, quasi banale, alla stregua di un advertising.

Tom Wesselmann, Still Life #30, 1963, MoMA
Tom Wesselmann, Still Life #30, 1963, MoMA

Il vero gastronomo della Pop Art rimane però Claes Oldenburg, con le sue sculture molli di vinile imbottito che riproducono cibi di largo consumo, come gelati, hamburger, patatine fritte e torte. Il suo cibo però non ha un aspetto gradevole e colorato, come le torte di Wayne Thiebaud ad esempio, ma mostra sempre un lato inquietante, che allontana qualsiasi desiderio di mangiarlo. È così in Floor Cake (1962, New York, MoMA), una gigantesca fetta di torta gettata sul pavimento, ma anche nel Dropped Cone di Colonia (2001), dove il cono gelato è conficcato nello spigolo di un palazzo, come se fosse appena caduto di mano ad un bambino mastodontico.

Claes Oldenburg, Floor Cake, 1962, MoMA
Claes Oldenburg, Floor Cake, 1962, MoMA
Wayne Thiebaud, Cakes, 1963, Washington, National Gallery of Art
Wayne Thiebaud, Cakes, 1963, Washington, National Gallery of Art

Nemmeno l’Arte Povera poteva tralasciare il cibo, nella sua continua ricerca di materiali fuori dalla tradizione, con cui creare opere d’arte inaspettate e ribaltare la presunzione di eternità che l’arte porta insita in sé sin dall’inizio. Cosa c’è di più deperibile di un caspo di insalata? Eppure Giovanni Anselmo (Senza titolo – Scultura che mangia, 1968, Parigi, Centre Pompidou) ha pensato bene di inserirla tra due blocchi di granito (un materiale al contrario solidissimo e pressoché eterno), costringendo tutta la scultura alla precarietà e alla costante sostituzione di una sua parte fondamentale. Nello stesso periodo Piero Gilardi iniziò a realizzare i suoi Tappeti Natura, composizioni in poliuretano espanso che riproducono porzioni di orto o sottobosco, dove crescono frutti e ortaggi solo in apparenza genuini e succulenti, ma che si rivelano poi essere di plastica e immangiabili. Un ecologista ante litteram insomma, così come lo era Nino Migliori, con le sue fotografie di frutta e verdura intrappolate nel cellophane.

Giovanni Anselmo, Senza titolo - Scultura che mangia, 1968, Parigi, Centre Pompidou
Giovanni Anselmo, Senza titolo – Scultura che mangia, 1968, Parigi, Centre Pompidou

Il belga Marcel Broodthaers invece ha usato il cibo, in particolare un piatto tipico nazionale, per ironizzare e prendere in giro il proprio paese; le cozze, vero simbolo del Belgio, emergono come una colonna compatta da una comunissima casseruola da cucina, in un accostamento dal sapore surrealista, così inaspettato eppure convincente (Casseruola con cozze, 1968, Londra, Tate Gallery).

Marcel Broodthaers, Casseruola di cozze, 1968, Londra, Tate Gallery
Marcel Broodthaers, Casseruola di cozze, 1968, Londra, Tate Gallery

Se i lavori di Will Cotton rimandano a un universo iper-zuccheroso, dai toni pastello e dalle atmosfere oniriche e fiabesche (Crown, 2012 con Katy Perry oppure lo Chalet di biscotti, 2003), diverso è il significato che i dolci, e in particolare le caramelle, hanno nelle installazioni di Felix Gonzalez Torres. Le caramelle e i bastoncini di liquirizia infatti evocano lo spettro della morte e del nulla che rimane dopo il loro consumo, ma sono anche una mera consolazione per coloro che rimangono (Untitled – Public Opinion, 1991, New York, Guggenheim Museum).

Will Cotton, Crown, 2012
Will Cotton, Crown, 2012
Felix Gonzalez Torres, Untitled (Public Opinion), 1991, New York, Guggenheim Museum
Felix Gonzalez Torres, Untitled (Public Opinion), 1991, New York, Guggenheim Museum

E adesso provate a guardare il cibo con gli stessi occhi di prima…

Una contessa contemporanea – Omaggio a Teresa Gamba Guiccioli

Teresa Gamba Guiccioli è un nome forse sconosciuto per la maggior parte delle persone, almeno per quelle che non abitano a Ravenna, dove al contrario la fama della contessina è ben nota, non fosse altro per essere stata per qualche anno l’amante di Lord Byron. Tracce evidenti del passaggio e del soggiorno del poeta inglese a Ravenna sono un po’ ovunque (toponimi di bar, alberghi, targhe sulle facciate dei muri), mentre la figura di Teresa rimane un po’ nell’ombra, come fosse una qualunque e ordinaria amante di un letterato famosissimo e scandaloso. Eppure non è così perché in realtà Teresa era una nobildonna, molto colta, raffinata amante della letteratura e dei libri, liberale e un po’ carbonara, patriottica e indipendente (per quanto lo potesse essere una donna nella piccola provincia italiana della prima metà dell’Ottocento). Fu osteggiata e criticata per tutta la sua vita, e anche oltre, proprio per la sua continua volontà di affermare e seguire le sue passioni, amorose e idealistiche, nonostante un marito e una società che le assegnavano tutt’altro ruolo. Un personaggio moderno e profondamente “italiano”, quando ancora l’Italia non esisteva e la morale regolava ogni aspetto della vita privata e pubblica. Una donna però costretta in qualche modo a celare una parte di sé; non certo la sua relazione amorosa con il bel poeta romantico, che era nota ovunque in città e anzi accettata e celebrata persino dal marito (anche all’epoca stare con una persona famosa era visto di buon grado), quanto piuttosto la sua cultura ed erudizione. Allora la maggior parte degli uomini non apprezzava troppo una donna letterata e acculturata, e Byron non faceva eccezione, così Teresa celò a tutti il suo interesse per la scrittura, che iniziò a coltivare seriamente solo dopo la morte dell’amato.
Dedicare una mostra a questa donna, forse ancora troppo nascosta dietro l’ingombrante sagoma dell’amante celebre, nella sua città natale e nel luogo dove si conserva il fondo delle sue memorie, fatto di lettere, manoscritti e ricordi personali, appare logico e legittimo; ma cosa esporre? Come fare emergere e far comprendere anche a chi non la conosce poi così bene la sua essenza, al di là dei meri dati biografici? La scelta migliore probabilmente è quella di far parlare qualcuno di estraneo, lontano nel tempo, scevro di giudizi (e pregiudizi), ma che possa allo stesso tempo immedesimarsi con la figura della contessina e comprendere i suoi sentimenti, per poi farli propri. E così sono state chiamate 15 artiste contemporanee a dare la loro personale visione di questa donna un po’ fuori dagli schemi. Il risultato non poteva essere che estremamente vario e coinvolgente; sono stati utilizzati pressoché tutti i medium espressivi, dalla pittura alla fotografia, dalla scultura alla videoarte, senza dimenticare il ricamo e l’installazione. Ognuno può farsi la sua idea di Teresa e magari condividerne una particolare interpretazione, oppure vederla in un modo diverso, inedito.

Antonella Cinelli, Teresa
Antonella Cinelli, Teresa, olio e acrilico, rete, luci a led

Una delle prime opere che cattura l’attenzione è quella di Antonella Cinelli, intitolata semplicemente Teresa (dalla serie Dolls), dove una misteriosa ragazza, di cui sono visibili solo gli occhi e le gambe, indossa un abitino di tulle ricoperto di lucette blu. Del resto Teresa aveva appena 19 anni (o forse poco più) quando s’innamorò perdutamente di Byron.

Silvia Camporesi, Deep 201o, lambda print
Silvia Camporesi, Deep 201o, lambda print

È l’esatto opposto invece l’opera di Giorgia Beltrami (Frara, acrilico), dove il ritratto di Teresa è talmente evanescente che si intravede appena; sfugge alla nostra vista, così come la Gamba Guiccioli sfugge ancora agli occhi dei contemporanei, ma nonostante tutto non si rassegna a scomparire completamente. Anche la Teresa di Silvia Camporesi (Deep 201o, lambda print, Photographica Fine Arts Gallery, Lugano) sembra essere stata quasi sconfitta dalla vita, mentre fluttua come una moderna Ofelia nel blu profondo e misterioso, senza opporre resistenza, ma rimanendo leggiadra e raffinata, come il suo rango esigeva. Paola Martelli ha voluto reinterpretare il busto neoclassico di Teresa, ospitato all’interno della biblioteca e realizzato da Lorenzo Bartolini, in una chiave pop, giocosa e colorata (Teresa Gamba Guiccioli, tecnica mista), lontana anni luce dall’immagine cupa e romantica che la storia e le cronache ci hanno lasciato.

Marialuisa Tadei, Tracce rosa, ricamo
Marialuisa Tadei, Tracce rosa, ricamo

La figura di Teresa scompare del tutto invece nell’opera di Marialuisa Tadei (Tracce rosa), un ricamo eseguito a mano dalla stessa artista, dove linee e colori forti e decisi si distribuiscono sulla tela come in un arazzo tribale o in una coperta peruviana, che sembrerebbero quanto di più lontano da Teresa. Eppure lei ha viaggiato molto, per tutta la sua vita, in un’epoca in cui viaggiare era tutt’altro che comodo o adatto a una donna, con i continui disagi e i pericoli; in Inghilterra, nella bellicosa e impenetrabile Grecia, a Parigi.

Omaggio a Teresa Gamba Guiccioli.
Ravenna, Manica Lunga della Biblioteca Classense – dal 15 marzo al 26 aprile 2014.

Music Cover & Art

Il rapporto tra musica e arte è sempre stato molto forte, sin da quando negli anni cinquanta si capì l’importanza che la copertina del vinile poteva avere nel vendere i dischi, tanto che alcune cover riuscirono a rendere immediatamente riconoscibili album e cantante/gruppo. Sin da subito gli artisti scesero in campo al fianco dei musicisti per creare qualcosa di originale, che rispecchiasse entrambe le personalità e rendesse distinguibili lo stile dell’uno e dell’altro. L’incontro tra questi due campi artistici, così diversi ma compenetranti tra di loro, non fu molto difficile; negli anni sessanta e settanta, artisti e musicisti frequentavano gli stessi quartieri, gli stessi locali, le stesse persone, in particolare a New York, culla dei nuovi movimenti artistici e della rivoluzione musicale in chiave rock. Negli anni 2000 continuano a incontrarsi e a influenzarsi a vicenda, anche grazie ai videoclip, presenti oggi come non mai sulla scena musicale. Alcuni sodalizi furono effimeri e durarono giusto il tempo di una canzone o di un disco, altri invece riuscirono a mantenersi a lungo grazie all’alchimia creativa che si instaurò tra le personalità coinvolte. Mentre tutti conoscono i lavori applicati alla musica di Andy Warhol (chi vedendo la copertina dei Velvet Underground con la banana gialla non sa che è del maestro della Pop Art?), pochi saprebbero dire chi fotografò Patti Smith per il suo primo album, Horses, uscito nel 1975, e ancora meno saprebbero a chi si devono le copertine di due dischi dei Metallica, Load e Reload, messi presto nel dimenticatoio dagli stessi fans della band di San Francisco. Gli artisti preferiti dal mondo della musica sono da sempre quelli che ruotano attorno alla Pop Art, dai grandi maestri, come appunto Warhol e Roy Lichtenstein, agli esponenti della New Pop Art, come Takashi Murakami e Damien Hirst. Ma un autore molto amato dai musicisti, specie quelli più alternativi ed estremi, è stato anche H.R. Giger, che ha creato decine di copertine per altrettanti gruppi, dagli Emerson, Lake and Palmer ai Carcass, da Debbie Harry ai Danzig, nonché l’asta del microfono di Jonathan Davis, frontman dei Korn, un perturbante nudo femminile con reminescenze robotiche.

A due anni di distanza l’uno dall’altro, l’ottavo decennio del Novecento vede comparire sul mercato discografico Sticky Fingers dei Rolling Stones (1971), Brain Salad Surgery degli Emerson, Lake and Palmer (1973) e Horses di Patti Smith (1975). Tre album di generi musicali completamente differenti, tre copertine realizzate da artisti diversissimi, ma tutti maestri di precisi stili artistici. Mentre la cerniera apribile di Warhol fece scandalizzare i benpensanti dell’epoca e lasciò i più a interrogarsi su chi fosse il modello in jeans (Mick Jagger? Un giovane della Factory?), di tutt’altra foggia era la copertina degli ELP, band progressive capitanata da Emerson, Lake and Palmer, opera di un artista lontanissimo dalla Pop Art modaiola e ammiccante. Niente infatti sembra accomunare Warhol a H.R. Giger, pittore svizzero ossessionato dai teschi e dalla meccanica, una sorta di simbolista prestato alla fantascienza, che venne contattato dal manager del gruppo, svizzero come lui, per realizzare la copertina dell’album in lavorazione. Siccome in quel periodo Giger stava lavorando al trittico Landscapes e il titolo del disco degli ELP significava fellatio in slang, il designer decise di combinare alcuni elementi caratteristici del trittico (teschi e falli) con le labbra di una creatura femminile, che si svela pienamente solo nel booklet interno al disco. Ça va sans dire che la band fu entusiasta della copertina, oscura, metallica, erotica e inquietante allo stesso tempo. Una curiosità: le tavole originali del progetto sono andate perdute nel 2005 a Praga, durante il viaggio in occasione di una mostra, e l’artista offre a tuttora una ricompensa a chi dovesse ritrovarle. Di natura diametralmente opposta è la foto asciutta ed essenziale scattata da Robert Mapplethorpe a Patti Smith per il suo album di debutto, dove la cantante americana, vestita di un completo bianco e nero dal taglio maschile, rivela tutta la sua bellezza androgina al fotografo, con cui era legata da una sincera amicizia. Il loro sodalizio artistico non si esaurì però con la copertina di Horses, ma continuò in una serie di scatti che costituiscono il nucleo portante del corpus fotografico di Mapplethorpe.

Emerson, Lake and Palmer, Brain Salad Surgery
Emerson, Lake and Palmer, Brain Salad Surgery
Patti Smith, Horses
Patti Smith, Horses

Gli anni ottanta si aprono con la copertina di Koo Koo (1980), album che segna l’esordio da solista di Debbie Harry, ex cantante dei Blondie, desiderosa di scrollarsi di dosso l’immagine di biondina d’America. E qual è il modo migliore per farlo? Incontrare in una galleria di New York, dove è allestita la mostra dei dipinti di Alien, all’indomani della nomination agli Oscar, proprio il papà di Alien, Giger in persona, che decide di prendere una foto della bellissima cantante e di perforarle il volto con quattro aghi. Del resto qualche tempo prima l’artista aveva subito un trattamento di agopuntura. Debbie ne fu talmente entusiasta che affidò a Giger anche la realizzazione di due videoclip. In piena età dell’oro della dance music, uno dei padri fondatori del genere, Bobby “O”, scelse per il suo album I cry for you del 1983 una tela del ciclo Crying Girl di Lichtenstein, dove una donna avvolta nella sua pelliccia maculata piange affranta ma senza scomporsi.

Debbie Harry, Koo Koo
Debbie Harry, Koo Koo
Bobby O, I cry for you
Bobby O, I cry for you

Gli anni novanta vedono riaffacciarsi sulla scena musicale un genere da sempre considerato minore e poco commerciale come l’heavy metal. Se da un lato non stupisce che i Carcass, gruppo inglese di Liverpool (ma scordatevi i Beatles), ossessionati da guerre, sangue, cadaveri, corpi mutilati scelgano una scultura di Giger (Life support 1993) per quello che resta il loro album di punta, Heartwork (1993), più sorprendente è invece la comparsa di due lavori di Andres Serrano come cover di due dischi dei Metallica, Load del 1996 e Reload dell’anno successivo. Gli artwork sono due varianti dello stesso soggetto, così come i due album sono l’uno la continuazione dell’altro; per crearli l’artista ha utilizzato materiali organici non convenzionali, ossia sperma, sangue e urina, incastrandoli tra due fogli di plexiglas e producendo un effetto simile a delle fiamme. Per la cover di Load il lavoro di riferimento è Semen and Blood III, mentre per Reload è Piss and Blood, entrambi realizzati nel 1990. Ma del resto Serrano non è nuovo a certe provocazioni lanciate al mondo dell’arte e al pubblico, visto che già nel 1987 aveva prodotto il Piss Christ, un crocifisso immerso nell’urina. Sembra che a scegliere le opere di Serrano siano stati Lars Ulrich e Kirk Hammett, batterista e chitarrista del gruppo, mentre il cantante James Hetfield si è schierato apertamente contro le due cover, colpevoli di essere volte solo a scioccare la gente.

Metallica, Load
Metallica, Load
Metallica, Reload
Metallica, Reload

Con il XXI secolo la presenza di copertine d’artista si fa sempre più massiccia, mentre si rinnovano i sodalizi tra musicisti e artisti, che tornano a collaborare assieme per creare artwork originali. Da un lato ci sono i furbetti della musica, che strizzano l’occhio in continuazione al mondo dell’arte, ricercando gli artisti più in voga, in modo da incrementare gli uni le vendite degli altri. Il caso più recente e più eclatante è quello dei Red Hot Chili Peppers, che per l’album By the way del 2002 si sono avvalsi della collaborazione di Julian Schnabel, mentre per il loro ultimo album del 2011, I’m with you, si sono serviti del prezzemolo dell’art business Damien Hirst, il quale ha realizzato ad hoc la copertina del disco, una mosca adagiata su una pillola fucsia e bianca, riprendendo il concept dell’opera Lullaby Spring. Hirst d’altronde non è nuovo a questo tipo di contributi, visto che due anni prima aveva già collaborato con i The Hours, realizzando la copertina del disco See the light (l’immancabile teschio questa volta in toni psichedelici, molto anni sessanta) e un videoclip. Di recente Hirst ha infine partecipato all’album dei Thirty Seconds to Mars, Love Lust Faith + Dreams (2013), fornendo il disegno del cd (l’opera Monochromatic Sectors From Primary, Secondary and Tertiary Colour Ring, 2012), e la copertina del disco, la gigantesca opera Isonicotinic Acid Ethyl Ester (2010-2011), che compare anche nel primo videoclip estratto, Up in the Air, dove una parete bianca è ricoperta di pois colorati e fa da sfondo e da collante a tutte le sequenze.

Red Hot Chili Peppers, I'm with you
Red Hot Chili Peppers, I’m with you
Thirty Seconds to Mars, Love Lust Faith + Dreams
Thirty Seconds to Mars, Love Lust Faith + Dreams

Dall’altro lato troviamo invece quei pittori che prendono totale ispirazione dal disco e lo calano nel proprio immaginario artistico; così Takashi Murakami realizza per Kanye West (Graduation, 2007) una cerimonia di diploma supercolorata e fantascientifica, in stile cartoon, popolata dalle sue bizzarre creature e dalla mascotte del cantante americano, l’orsacchiotto “Dropout Bear”, non solo per la copertina del disco, ma anche per il booklet, i vari singoli estratti e un videoclip animato. Ultima collaborazione in ordine di tempo è quella tra Katy Perry e il pittore americano Will Cotton, il quale ha prestato alla cantante americana il suo universo fantastico, zuccheroso e colorato per l’album Teenage Dream (2010); sulla copertina del disco la ninfa Katy giace sdraiata su una nuvola di zucchero filato rosa, mentre nel video del primo singolo estratto (California Gurls) il mondo cottoniano è stato ricreato in tre dimensioni, con veri dolci e casette di pan di zenzero giganti.

Kanye West, Graduation
Kanye West, Graduation
Will Cotton, Candy Katy, 2010
Will Cotton, Candy Katy, 2010

Takashi Murakami

Nasce a Tokyo nel 1962 da una famiglia modesta. All’università, che frequenta nella sua città natale dal 1986 al 1993, studia l’arte antica giapponese e impara a usare i colori in modo piatto, senza ombreggiature né sfumature, la linea di contorno nera, l’appiattimento degli spazi. A questi elementi unisce la cultura contemporanea, in particolare la Pop Art americana, la computer grafica, i personaggi dei manga e degli anime giapponesi, e le icone del consumismo popolare (Hello Kitty in primis). Nel 1995 fonda la Kaikai Kiki, un laboratorio simile alla factory di Andy Warhol, dove giovani artisti lo assistono nella realizzazione delle sue opere e nella pianificazione del merchandising collegato ai suoi lavori. Il suo mondo è immerso in un’infanzia infinita, tipica del mondo giapponese.

Definisce il suo procedimento artistico Poku, unione di Pop e otaku, i giovani appassionati di anime e manga. Alcune sue tipiche e ricorrenti creazioni sono i funghetti colorati, tutti denti e occhi, le creature con la testa a palla, i fiori sorridenti.

Nel 2003, in collaborazione con lo stilista Marc Jacobs, disegna la borsa Cherry Blossom per Louis Vuitton, dove il classico logo della maison francese si coniuga con lo stile supercolorato e superflat del giapponese.

Nel 2010 viene allestita una mostra personale di Murakami nella sfarzosa cornice della reggia di Versailles, dove le sue sculture buffe, giocose, colorate e infantili dialogano tra gli affreschi, i busti di imperatori romani, i marmi policromi, gli specchi e le facciate del palazzo reale, con un effetto straniante ma mai volgare né fuori luogo.

Murakami at Versailles, 2010