Le Mur des Amoureux de Peynet – Le Cannet

Le Mur des Amoureux de Peynet - Le Cannet
Le Mur des Amoureux de Peynet – Le Cannet (France)

Street Art sui generis, questo affresco è stato realizzato nel 1990 da Raymond Peynet, il papà dei celebri “Amorini”, e da Guy Ceppa, pittore specializzato nella tecnica dell’affresco, sul muro di una palazzo d’epoca in rue Saint-Sauveur a Le Cannet, in Costa Azzurra. Il villaggio, a pochissimi chilometri dal mare e dalla caotica Cannes, è una continua ode all’arte, grazie ai tanti artisti che vi hanno abitato nel corso degli anni, primo tra tutti Pierre Bonnard, a cui è stato dedicato un intero museo.

Niente di strano che un muro dipinto compaia qui e raffiguri due giovani sposini che si librano nell’aria, aiutati da colombe e angioletti. La cittadina è infatti una piccola oasi di pace e tranquillità in mezzo ai fasti della Riviera francese, fatta di giardini, verde, agrumeti e botteghe artistiche e artigianali.

Un villaggio monumentale: sculture en plein air a Mougins

Sulle colline della Costa Azzurra, a pochi chilometri dalle spiagge affollate e movimentate di Cannes, sorge un piccolo villaggio, fatto di case di pietra, muri a secco, fiori colorati e viuzze in saliscendi, dove si respira una tranquillità d’altri tempi e tutto profuma d’arte. Mougins è un paese sospeso nel tempo e nello spazio, gremito di ristoranti e piccole gallerie d’arte, dove l’antico lavatoio è diventato un luogo d’arte e una porta saracena ospita un museo della fotografia tappezzato di immagini dei più grandi intellettuali del Novecento.

Mougins, Musée de la Photographie André Villers
Mougins, Musée de la Photographie André Villers

Tutto merito di Picasso probabilmente, che qui visse per quasi due decenni, lontano dal trambusto della Riviera, ma abbastanza vicino per poter rimanere in contatto con tutti e all’occorrenza partecipare a feste ed eventi mondani. Da allora artisti e galleristi hanno iniziato a popolare la cittadina e negli ultimi anni anche la municipalità si è mostrata molto attiva nel proporre esposizioni che promuovano l’arte contemporanea e allo stesso tempo mettano in luce le bellezze di questo luogo.

È il caso di Monumental, mostra di sculture en plein air che anima le vie antiche con animali e strani ibridi umani, che si ergono maestosi al centro della piazza, spuntano inaspettati da un vicolo o sbucano fuori da un muro.

Serge Van de Put, Cheval, Mougins, pneumatici
Serge Van de Put, Cheval, Mougins, pneumatici

Serge Van de Put, Gorilles, Mougins, pneumatici
Serge Van de Put, Gorilles, Mougins, pneumatici

Serge Van de Put ha deciso di utilizzare un materiale di scarto come gli pneumatici usati per realizzare le sue sculture di animali, liberi come il cavallo, intrappolati in gabbia come i suoi gorilla, addirittura appesi come trofei a un muro di cinta come leoni e orsi. Ogni materiale può essere utilizzato per fare arte, proprio come ci hanno insegnato i dadaisti, e la sua miserabilità non toglie niente al valore intrinseco dell’opera.

Più ludiche sono invece le opere dei coniugi Lalanne (Claude e François-Xavier, 1927-2008), che qui presentano una coppia di pecore sistemate in un giardino alla stregua di due cagnolini. Tutta la loro opera è permeata da un’ironia giocosa, quasi surrealista, divertente e poetica allo stesso tempo.

Claude e François Lalanne, Moutons, 2008, bronzo e cemento
Claude e François Lalanne, Moutons, 2008, bronzo e cemento

Decisamente monumentali sono i lavori di Ben, che scherza con le parole, includendole nelle sue sculture di animali a grandezza naturale, quasi fossero le stesse bestie a parlare. Così il suo cavallo nero porta il doppio cartello “Toute la vérité pour un cheval” e “Je suis le cheval de Troie de l’art contemporain”, mentre la sua mucca bianca collocata davanti all’ufficio del turismo si trasforma in uno scrigno porta-segreti, dove chiunque può inserire le sue promesse d’amore o i segreti più inconfessabili.

Ben, Toute la vérité pour un cheval, Mougins
Ben, Toute la vérité pour un cheval, Mougins

 

Ben, La vache qui rumine, Mougins, resina
Ben, La vache qui rumine, Mougins, resina

I lavori di Jean-Michel Folon (1934-2005) sono al contrario la quintessenza della leggerezza, con la loro struttura filiforme, memore di Giacometti, che si libra nell’aria e quasi si confonde con l’ambiente. Sono esseri ibridi quelli dell’artista belga, un po’ uccelli, un po’ uomini, un po’ pesci, che non incutono alcun timore né ribrezzo, ma si presentano come moderni totem dell’arte contemporanea.

Jean Michel Folon, Méditerranée, 2001, Mougins
Jean Michel Folon, Méditerranée, 2001, Mougins

 

Jean Michel Folon, Oiseau, Mougins
Jean Michel Folon, Oiseau, Mougins

Tutto il contrario dei massicci uomini di pietra e ferro di Max Cartier, pesanti, rugosi, tribali e terreni, realizzati proprio con le pietre locali, che donano loro un non so che di atavico e primordiale, brutale eppure autentico.

Max Cartier, Homme de pierre, 1990, pietra e ferro, Mougins
Max Cartier, Homme de pierre, 1990, pietra e ferro, Mougins

C’è spazio anche per un tocco di Italia grazie ai bronzi di Davide Rivalta, che già animano diversi luoghi di Ravenna, come il tribunale, il Museo Nazionale, la basilica di Sant’Apollinare in Classe. A Mougins il rinoceronte funge quasi da guardiano sul sagrato della chiesa, mentre due lupi passeggiano tra le case, con un effetto inatteso e straniante, ma mai minaccioso.

Davide Rivalta, Lupo, bronzo, Mougins
Davide Rivalta, Lupo, bronzo, Mougins

 

Davide Rivalta, Rinoceronte, bronzo, Mougins, place de l'église
Davide Rivalta, Rinoceronte, bronzo, Mougins, place de l’église

Monumental 2016 – Mougins Village, dal 5 marzo al 29 maggio 2016.

Cibo ad arte…ovvero come il cibo ha contaminato l’arte contemporanea

Io sono per l’arte delle pompe di benzina bianche e rosse, delle insegne luminose a intermittenza, per i biscotti…” – Claes Oldenburg.
Il cibo ha sempre avuto un posto e un ruolo nell’arte, in quella classica e in quella contemporanea, nelle scene religiose così come nelle nature morte, sullo sfondo oppure in primissimo piano, accessorio o al contrario protagonista. Nell’arte medievale e moderna le vivande apparivano per ciò che erano, anche se talvolta potevano avere dei significati nascosti, misteriosi o al contrario facilmente riconoscibili; il pane ad esempio rimandava all’eucaristia, la melagrana alla fedeltà coniugale, la mela morsicata alla caducità della vita… Il primo a stravolgere il senso e l’uso comune dei generi alimentari è stato senza dubbio Arcimboldo, che già nel Cinquecento si divertiva a realizzare curiosi ritratti con frutta e verdura, creando un divertissement unico per la corte asburgica.
Nell’arte contemporanea però il cibo ha iniziato ad assumere un ruolo diverso e a essere usato non più come tale, ma come qualcos’altro. Così il Busto di donna retrospettiva di Salvador Dalì (1933, New York, MoMA) ha come copricapo una baguette e come capelli delle pannocchie, mentre René Magritte sconvolge tutte le nostre certezze dicendoci che non sempre una mela disegnata è semplicemente una mela (Ceci n’est pas une pomme, 1964, collezione privata).

Salvador Dalì, Busto di donna retrospettiva, 1933, MoMA
Salvador Dalì, Busto di donna retrospettiva, 1933, MoMA

Tra tutti i movimenti artistici, la Pop Art è di certo quello che ha dedicato un posto di riguardo al cibo; non esiste artista pop che non abbia realizzato almeno un’opera il cui protagonista sia un alimento. Andy Warhol ha creato una serie di litografie (Milano, Fondazione Mazzotta) che hanno per soggetto alcuni dolci più o meno inventati, con fantasiose ricette per riprodurli, mentre Tom Wesselmann ha inserito un po’ ovunque nei suoi quadri prodotti di grandi marchi americani, veri status symbol della società americana anni sessanta (e non solo). E così in Still Life #30 (1963, New York, MoMA) fanno bella mostra di sé tutti gli alimenti che si possono trovare nella dispensa e nel frigorifero della famiglia perfetta della società consumistica (yogurt, frutta in scatola, cereali da colazione, pane da toast, pancakes…); alcuni oggetti sono dipinti, altri sono stati ritagliati dalla pubblicità e poi incollati sulla superficie pittorica, ma non fa differenza perché tutto è trattato nella stessa maniera, in modo piatto e artificioso, quasi banale, alla stregua di un advertising.

Tom Wesselmann, Still Life #30, 1963, MoMA
Tom Wesselmann, Still Life #30, 1963, MoMA

Il vero gastronomo della Pop Art rimane però Claes Oldenburg, con le sue sculture molli di vinile imbottito che riproducono cibi di largo consumo, come gelati, hamburger, patatine fritte e torte. Il suo cibo però non ha un aspetto gradevole e colorato, come le torte di Wayne Thiebaud ad esempio, ma mostra sempre un lato inquietante, che allontana qualsiasi desiderio di mangiarlo. È così in Floor Cake (1962, New York, MoMA), una gigantesca fetta di torta gettata sul pavimento, ma anche nel Dropped Cone di Colonia (2001), dove il cono gelato è conficcato nello spigolo di un palazzo, come se fosse appena caduto di mano ad un bambino mastodontico.

Claes Oldenburg, Floor Cake, 1962, MoMA
Claes Oldenburg, Floor Cake, 1962, MoMA
Wayne Thiebaud, Cakes, 1963, Washington, National Gallery of Art
Wayne Thiebaud, Cakes, 1963, Washington, National Gallery of Art

Nemmeno l’Arte Povera poteva tralasciare il cibo, nella sua continua ricerca di materiali fuori dalla tradizione, con cui creare opere d’arte inaspettate e ribaltare la presunzione di eternità che l’arte porta insita in sé sin dall’inizio. Cosa c’è di più deperibile di un caspo di insalata? Eppure Giovanni Anselmo (Senza titolo – Scultura che mangia, 1968, Parigi, Centre Pompidou) ha pensato bene di inserirla tra due blocchi di granito (un materiale al contrario solidissimo e pressoché eterno), costringendo tutta la scultura alla precarietà e alla costante sostituzione di una sua parte fondamentale. Nello stesso periodo Piero Gilardi iniziò a realizzare i suoi Tappeti Natura, composizioni in poliuretano espanso che riproducono porzioni di orto o sottobosco, dove crescono frutti e ortaggi solo in apparenza genuini e succulenti, ma che si rivelano poi essere di plastica e immangiabili. Un ecologista ante litteram insomma, così come lo era Nino Migliori, con le sue fotografie di frutta e verdura intrappolate nel cellophane.

Giovanni Anselmo, Senza titolo - Scultura che mangia, 1968, Parigi, Centre Pompidou
Giovanni Anselmo, Senza titolo – Scultura che mangia, 1968, Parigi, Centre Pompidou

Il belga Marcel Broodthaers invece ha usato il cibo, in particolare un piatto tipico nazionale, per ironizzare e prendere in giro il proprio paese; le cozze, vero simbolo del Belgio, emergono come una colonna compatta da una comunissima casseruola da cucina, in un accostamento dal sapore surrealista, così inaspettato eppure convincente (Casseruola con cozze, 1968, Londra, Tate Gallery).

Marcel Broodthaers, Casseruola di cozze, 1968, Londra, Tate Gallery
Marcel Broodthaers, Casseruola di cozze, 1968, Londra, Tate Gallery

Se i lavori di Will Cotton rimandano a un universo iper-zuccheroso, dai toni pastello e dalle atmosfere oniriche e fiabesche (Crown, 2012 con Katy Perry oppure lo Chalet di biscotti, 2003), diverso è il significato che i dolci, e in particolare le caramelle, hanno nelle installazioni di Felix Gonzalez Torres. Le caramelle e i bastoncini di liquirizia infatti evocano lo spettro della morte e del nulla che rimane dopo il loro consumo, ma sono anche una mera consolazione per coloro che rimangono (Untitled – Public Opinion, 1991, New York, Guggenheim Museum).

Will Cotton, Crown, 2012
Will Cotton, Crown, 2012
Felix Gonzalez Torres, Untitled (Public Opinion), 1991, New York, Guggenheim Museum
Felix Gonzalez Torres, Untitled (Public Opinion), 1991, New York, Guggenheim Museum

E adesso provate a guardare il cibo con gli stessi occhi di prima…

Carlo Corsi. Opere dal 1902 al 1966

Grazie alla collaborazione con una storica galleria d’arte bolognese, la Galleria Cinquantasei, il MAR prosegue la sua personale storia dell’arte italiana alla riscoperta di artisti poco considerati sia dalla critica che dal pubblico, ma che hanno avuto un ruolo non marginale nell’arte del Novecento, offuscati però dai grandi nomi coevi. Questa volta è il turno di Carlo Corsi, nizzardo di nascita (1879-1966) ma bolognese a tutti gi effetti, definito di volta in volta “il francese di Bologna” e “il poeta del colore”, per il suo rapporto stretto con la pittura d’oltralpe di matrice impressionista e postimpressionista, ma anche per la consonanza con artisti italiani parigini d’adozione, come Boldini, De Nittis e Zandomeneghi. La sua attenzione infatti va per lo più alla figura femminile, ripresa nelle pose più disparate, in interni borghesi, all’aperto, vestita degli abiti più alla moda o nuda, intenta a leggere o a camminare. C’è spazio tuttavia anche per piccoli paesaggi marini, dove troneggiano le località balneari più belle e rinomate d’Italia, da Riccione a Cesenatico, da Portofino a Celle Ligure, per concludere con alcuni collage degli anni quaranta-cinquanta. Man mano che passa il tempo la pittura di Corsi si sfalda, diventa sempre più indefinita, fino a lasciare il posto a materiali di scarto e banali, come carta di caramelle, stagnola, buste, cartone, che (re)introducono la realtà in opere ormai lontane dal figurativo. In mostra si susseguono un centinaio di dipinti, che scandiscono le varie tappe della lunga carriera del pittore, conclusasi nel 1966. I dipinti degli anni dieci sono quelli più “parigini”, dominati dal colore, vibrante, sfaldato, ma anche intimi, interiori, quasi segreti, lontani dai clamori e dai rumori metropolitani. Il fuoco (1910-12, collezione privata) è un olio basato sull’assenza e giocato sui toni brucianti del rosso: una donna sta seduta coi suoi abiti eleganti davanti al caminetto della sua stanza, la cui presenza è però suggerita solo dalla luce e dal bagliore rossastro emanati.  Nella sequela di dame con l’ombrellino (Dama con l’ombrellino, 1913-14, collezione privata) che passeggiano in giardini aleatori, dove i fiori e le piante sono  leggeri tocchi di colore e piccole pennellate, di donne intente a leggere quotidiani e libri (La lettura del Carlino, 1918, collezione privata), a cucire e ricamare (Donna che cuce, 1010-12, collezione privata), o semplicemente assorte nei loro pensieri, è impossibile non cogliere l’attenzione nei confronti dell’abbigliamento femminile. Le donne di Corsi indossano abiti leggeri, eterei e candidi, vestiti rossi o gialli, giacche verdi o rosse, gonne a righe, tutto quello che la moda borghese dell’epoca richiedeva a una signora bene. Corsi può essere definito non solo “il poeta del colore”, ma anche “il poeta della luce”: in Figura in controluce (1920, collezione privata) la donna che legge in piedi è pura luce, abbagliante nei toni del bianco e del fucsia, mentre ne Il ventaglio (1918, collezione privata, olio su cartone) la luce filtra dalle persiane chiuse alle spalle della dama, colta in una posa molto elegante, enfatizzata dall’abito nero senza maniche.

Ravenna, MAR – dal 7 ottobre al 9 dicembre 2012.

Carlo Corsi, Figura con ombrellino, 1915, collezione privata.
Carlo Corsi, La lettura del Carlino, 1918, collezione privata.